Giulio Regeni: “La responsabilità della sua morte è degli apparati di sicurezza egiziani”

Il Parlamento prende una posizione forte contro il regime di Al-Sisi, sulla scia delle accuse mosse dalla Procura di Roma che sta cercando di arrivare alla verità sulla morte del giovane. 

giulio regeni

La responsabilità del sequestro, della tortura e dell’uccisione di Giulio Regeni grava direttamente sugli apparati di sicurezza della Repubblica araba d’Egitto, e in particolare su ufficiali della National Security Agency (NSA), come minuziosamente ricostruito dalle indagini condotte dalla Procura della Repubblica di Roma”. Ad affermarlo è la Commissione parlamentare di inchiesta sulla morte di Giulio Regeni, nella relazione finale, approvata all’unanimità mercoledì primo dicembre.

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I responsabili dell’assassinio di Giulio Regeni sono al Cairo – si legge nel documento – all’interno degli apparati di sicurezza e probabilmente anche all’interno delle istituzioni”. Il Parlamento nella sostanza prende una posizione forte contro il regime di Al-Sisi, sulla scia delle accuse mosse dalla Procura di Roma che sta cercando di arrivare alla verità sulla morte del giovane. 

“Si può ottenere la verità solo con la collaborazione dell’Egitto”

La via della verità e della giustizia può trovare un correlativo oggettivo solo in presenza di un’autentica collaborazione da parte egiziana. Se nei primi due anni, alcuni risultati sono stati faticosamente e parzialmente raggiunti, anche in virtù dell’intransigenza mantenuta dall’Italia, negli anni successivi non sono venute dal Cairo altro che parole a livello politico, mentre la magistratura si è chiusa a riccio in un arroccamento non solo ostruzionistico, ma apertamente ostile e lesivo sia del lavoro svolto dagli inquirenti italiani che dell’immagine del giovane ricercatore, verso cui lo stesso presidente Al-Sisi aveva usato un tono ben diverso”, si legge nella relazione. 

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Secondo la Commissione, “la mancata comunicazione da parte egiziana del domicilio degli imputati, nonostante gli sforzi diplomatici profusi al fine di conseguirla, non si risolve nella mera “fuga dal processo” – si legge ancora nella relazione – ma sembra costituire una vera e propria ammissione di colpevolezza da parte di un regime che sembra aver considerato la cooperazione giudiziaria alla stregua di uno strumento dilatorio“.